MY FAVOURITE THINGS
di Ilaria Faraoni
Titolo: Rugantino
Primo debutto: 15 dicembre 1962 al Teatro Sistina
Commedia musicale di Garinei e Giovannini, scritta con Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa; collaborazione artistica di Luigi Magni – Regia: Garinei e Giovannini – Musiche: Armando Trovajoli – Coreografie: Dania Krupska (edizione 1962) – Gino Landi (dalla seconda edizione del 1978 ad oggi) – Scene e costumi: Giulio Coltellacci.
N.B. L’analisi più dettagliata di alcune scene è stata fatta principalmente sulla seconda edizione con Enrico Montesano, grazie al dvd della collana di Garinei e Giovannini pubblicata in edicola.[divider]
TRAMA
Nella Roma ottocentesca, governata dal papato, Rugantino, simpatico spaccone e scansafatiche dalla lingua lunga, sempre pronto allo sberleffo pungente, si arrangia come può, con la fida Eusebia, per “tirare a campare”. Messo alla berlina dopo una delle sue malefatte, incontra Rosetta, che gli rivolge un gesto gentile. La donna è sposata al gelosissimo quanto violento Gnecco. Rugantino scommette con gli amici che riuscirà a concludere con lei entro la Sera dei Lanternoni. Sistemata Eusebia con Mastro Titta, il boia dello stato pontificio proprietario di una bottega, Rugantino conquista Rosetta e a sua volta se ne innamora ma, dopo averle promesso il silenzio, ne ferisce i sentimenti vantandosi in modo pesante delle sue avventure amorose davanti agli amici che lo deridono credendo che abbia perso la scommessa. Durante il carnevale, trovandosi al posto sbagliato nel momento sbagliato, Rugantino viene accusato dell’omicidio di Gnecco guadagnando, per questo atto che gli si imputa, la stima della gente e di Rosetta, che ora lo considera un vero uomo. Rugantino così, per non perdere il tanto agognato rispetto e l’ammirazione della donna che ama, nonché dei suoi compagni, affronta l’esecuzione senza rimpianti.[divider]
CURIOSITÀ
- In una trasmissione Rai, Nino Manfredi ed Enrico Montesano si confrontano su Rugantino e Manfredi ricorda diversi aneddoti su Fabrizi e sull’esperienza americana: http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-00fae2c8-aa55-431d-89e0-22b7979e63b1.html
- Enrico Montesano racconta, in una intervista, che Pietro Garinei multò di 10.000 lire a testa lui ed Aldo Fabrizi perché una sera avevano improvvisato delle battute su telefono e gettoni. Disse Garinei: “Non è per me, ma per rispetto di Sandro che non c’è più e degli altri autori”.
- Lo studio di Garinei e Giovannini al primo piano del Sistina era chiamato “Il bunker”
- Nel 2010, nel corso della conferenza stampa in Campidoglio per la presentazione del primo allestimento di Enrico Brignano, l’allora Sindaco di Roma Alemanno premiò Armando Trovajoli con una medaglia per la quale il Maestro ringraziò “… A nome del popolo romano“.
- Rugantino in origine era stato pensato come film da Magni, Festa Campanile e Franciosa. Successivamente al debutto teatrale del 1962, ne venne realizzato un film, al quale Magni non collaborò, nel 1973: nel ruolo del titolo Adriano Celentano. Rosetta era interpretata da Claudia Mori. Se stupisce un milanese nel ruolo del romano per eccellenza, basti pensare che nel cast che andò in America nel 1964 c’era, nel ruolo di Rosetta, Ornella Vanoni.
- Mastro Titta, “er boja de Roma” è realmente esistito: Giovanni Battista Bugatti. Il Belli gli dedicò addirittura alcuni sonetti.
- Il nome Rugantino nasce dal verbo rugare, infastidire, protestare minacciando con arroganza.
[divider]N.B. Per leggere la presentazione e lo scopo della rubrica My Favourite Things cliccare QUI.
http://www.mediterrarea.com/chi-siamo/stefania-fratepietro
Stefania, perché hai scelto Rugantino?
Perché, pur amando tantissimo il musical anglosassone, volevo parlare del mondo musicale teatrale italiano, di un prodotto artistico italiano: abbiamo una tradizione nostra molto forte, con degli artisti molto bravi. E nel panorama musicale teatrale italiano non si può non citare il regno della commedia musicale, non si possono non citare Garinei e Giovannini e le altre personalità che hanno fatto la storia del teatro e del cinema italiano: parliamo di autori come Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Luigi Magni; di artisti come Aldo Fabrizi, Nino Manfredi, Bice Valori, Enrico Montesano… Sono tutti dei colossi all’interno del nostro panorama artistico.
Non ho avuto la fortuna di lavorare con Pietro Garinei, ma ho tantissimi amici che ci hanno lavorato e lui era veramente un signore del teatro. Dava del lei a tutti, lo chiamavano il dottore. Lui era quello che la mattina portava le colazioni ai ragazzi, faceva il famoso sacco a Natale, tutti lo sapevano, e c’era un regalo per tutti, tecnici e attori. Oppure preparava la medaglietta personalizzata come ricordo dello spettacolo, firmava personalmente i bigliettini per tutti. Un vero signore che si preoccupava dell’artista. Aveva un’attenzione diversa. Il teatro di Garinei e Giovannini è stato un’isola felice.
C’è una bellissima frase detta da Magni in una intervista che cita l’imperatore e filosofo Marco Aurelio: “Se non sai da dove vieni, non sai dove vai, ma non sai neanche dove sei”. Senza conoscere la storia, le proprie radici, non si può capire il presente. Quindi è giusto conoscere tutto, è giusto conoscere chi il musical lo sa fare, come gli americani, dai quali c’è solo da imparare, va bene utilizzarne il linguaggio, quello del musical, che è diverso da quello della commedia musicale, ma non si può sempre guardare fuori, senza conoscere chi siamo. È come andare a vedere la Tour Eiffel senza aver mai visto il Colosseo.
La commedia musicale nasce più dall’operetta, dal varietà, e Garinei e Giovannini vengono dal varietà. Sono nati artisticamente nel dopoguerra, poi nel corso del tempo sono diventati due colossi ed il Sistina è diventato il punto di riferimento del teatro italiano: della rivista, della commedia musicale e non solo. In quel teatro sono passati nomi grandissimi, basti pensare a Rascel, Modugno, Delia Scala, Fabrizi appunto, la Mondaini, Walter Chiari… C’era anche un modo di fare spettacolo molto più ricco. Ora siamo in un momento di crisi e giustamente le produzioni sono costrette a tagliare molto perché veramente non ce la si fa.
L’operazione di Enrico Brignano, (lo spettacolo è presentato da LIVE NATION, MF Produzioni e TEATRO SISTINA, ndr) quella di voler fare uno spettacolo tutto italiano, dal primo spillo all’ultimo, e di volerlo fare in una maniera così importante, senza riduzioni e di volerlo portare a New York, come 50 anni fa (La settimana Incom, dall’archivio dell’Istituto Luce), ha un grande significato! Un significato che va oltre al fatto di rispolverare un classico. In scena ci sono più di 50 artisti, alcuni hanno partecipato a quasi tutte le edizioni. È come dimostrare che anche noi italiani possiamo fare uno spettacolo ricco, che il teatro musicale può ancora essere bello, e bello con una cosa italiana. Perché noi siamo famosi all’estero per i grandi allestimenti d’Opera. I nostri spettacoli d’Opera sono un fiore all’occhiello.
Tra parentesi: se si ascoltano le opere italiane, si capisce da dove nasca tutto. A Roma c’è il 50% delle opere d’arte mondiali. Gli americani ci devono insegnare tante cose, va bene, ma l’America è stata fatta anche dagli italiani. E poi noi abbiamo dei mostri sacri come Fabrizi, Fellini, la Magnani, Totò. Abbiamo Ronconi, Strehler… Gli stranieri ci studiano, studiano il nostro mondo, il nostro neorealismo, i nostri Fellini, Rossellini… nel cinema americano tantissimi premi Oscar sono italiani.
Abbiamo un artigianato che ci invidiano; ci chiamano. Gli italiani sono maestri in tutto e dobbiamo avere un minimo di orgoglio per quello che siamo. Noi vinciamo sempre, ovunque, perché abbiamo una passionalità, una genialità molto forti. Gli altri hanno gli strumenti, la metodologia, noi abbiamo l’estro, la creatività, abbiamo l’arte.
Il nostro popolo, nella storia, è sempre stato sottomesso, però è sempre stato geniale, creativo, un popolo che nella difficoltà ha tirato fuori le cose più belle al mondo. La storia va ricordata.
Per questo io a Brignano stringo la mano e dico: bravo! Ha voluto riportare la grandiosità di uno spettacolo italiano nel campo della commedia musicale; è come un voler ribadire che il marchio italiano è ancora sinonimo di qualità. E il fatto che vada a New York lo leggo proprio come un orgoglio italiano, un modo per dire: esistiamo anche noi!
Brignano ha ripreso la scenografia originale. I fondali sono quelli originali e a restaurarli c’è stato un maestro capo bottega che all’epoca era garzone nella bottega artigiana che li aveva realizzati. Anche i costumi sono quelli originali del Sistina, risistemati per i cambi taglia o per l’usura del tempo. I pantaloni di Mastro Titta, per esempio sono proprio quelli indossati da Aldo Fabrizi. Tutto l’impianto scenico è quello originale di Coltellacci.
Poi io adoro Gigi Magni ed anche per questo ho scelto “Rugantino”. Ogni tanto bisognerebbe ricordare la storia. Se tu guardi i film di Magni, c’è sempre un discorso di denuncia sociale, attraverso l’ironia. E “Rugantino”, nel panorama delle commedie di Garinei e Giovannini, ha un peso diverso.
Innanzitutto è una commedia che finisce male e a questo proposito ci fu una diatriba tra Garinei e Giovannini, perché uno sosteneva che le commedie musicali dovessero necessariamente avere il lieto fine, l’altro propendeva per il finale tragico. Avevano paura. Quando lo spettacolo debuttò nel 1962 ci furono, dopo l’ultima scena, 30 secondi di silenzio e 30 secondi di silenzio, in teatro, sono infiniti. Poi invece esplose un applauso fortissimo che diede loro ragione per la scelta fatta. “Rugantino” poi è l’emblema di un modo molto nostro di raccontarci che è unico al mondo, completamente diverso da quello straniero; abbiamo un modo di ironizzare e di fare satira totalmente diverso. Noi ironizziamo sui nostri difetti, ci prendiamo in giro sulle nostre debolezze, sulle nostre incapacità, e tutto ciò è molto evidente nel neorealismo italiano.
Dobbiamo tenere conto di tutto il fermento nato durante gli anni del dopoguerra, nel cinema, con i film con Manfredi, Mastroianni, Tognazzi, Totò, Sordi… Questo modo di raccontarci si riscontra in “Rugantino”, dove ritrovo molto di Magni: pensiamo a “Scipione detto anche l’Africano” (1971), a “La Tosca” (1973), a “In nome del Papa re” (1977), a “In nome del popolo sovrano” (1990). Lui faceva una feroce satira nei confronti del presente attraverso la storia; con il divertimento e con lo sberleffo denunciava delle situazioni: questo è il modo tipicamente italiano di cui parlavo. In “Rugantino” lo si ritrova in mille forme, la presa in giro trasuda in tutto lo spettacolo. L’arte ha comunque una componente educativa fondamentale nella società. Non dico di fare il teatro sociale. In Rugantino si ride, ma lo spettacolo ti dice qualcosa. C’è un sottotesto. Anche se guardi i film di Sordi ridi dall’inizio alla fine, ma in quelle battute c’è un mondo. E noi siamo proprio bravi in questo! Con il sorriso raccontiamo verità atroci. E non è vero, secondo me, che la gente vuole soltanto ridere. La gente vuole ridere con il contenuto.
La maschera di “Rugantino” – perché “Rugantino” è una maschera del teatro romano e vi rimando a wikipedia per approfondimenti – viene usata, per esempio, per una denuncia dello stato papalino, in un momento storico dove il Papato aveva tutti i poteri; questa critica è evidente anche nella canzone “Tira a campa’”.
Anche in altri spettacoli di Garinei e Giovannini c’è una critica alla Chiesa: penso ad “Aggiungi un posto a tavola” o ad “Alleluja Brava Gente”…
Sì c’è sempre questa critica forte alla Chiesa quando questa non si occupa dell’anima, ma di faccende terrene, di cose politiche; e allora è lì che viene derisa, con l’inserimento di figure non positive che ritornano negli spettacoli.
La Roma di Rugantino era governata dalla Chiesa: “Ce saranno quattro case, ma ce so’ duemila chiese, che paese!” si canta in “Tira a campa’”. Per esempio c’è una scena in cui Rugantino è nascosto in una botte nella bottega di Mastro Titta, rischia la pena di morte perché ritenuto colpevole dell’uccisione di Gnecco e c’è il cardinale che va a prendere il vino. Lui si fa scoprire: anche in quel momento così critico Rugantino non riesce a trattenersi per prendere in giro il clero. Oppure fa riflettere il momento in cui lui, rincorso da Gnecco, si rifugia in Chiesa e chiede aiuto a Don Fulgenzio che gli risponde: “Ma figlio mio, noi l’asilo lo dobbiamo da’ agli assassini, mica a chi non ha fatto niente”.“Ma se quello mi incontra m’ammazza!”, insiste Rugantino. “E vuol dire che poi l’asilo lo daremo a lui!”, conclude Don Fulgenzio. Ecco l’assurdità che viene denunciata. La cosa bella è che poi, quando Rugantino alla fine scappa sul sagrato della Chiesa accusato dell’assassinio di Gnecco, si rivolge al prete dicendogli: “Don Fulge’, mo sì che me lo dovete da’ er diritto d’asilo!”.
C’è un pezzo molto bello fatto da Gigi Proietti (all’interno dello spettacolo “Gaetanaccio”, 1978, di Gigi Magni, ndr) che fa capire benissimo il significato della maschera di Rugantino con la sua critica alla società (da ricordare che Rugantino fu protagonista del teatro dei burattini di un famoso burattinaio romano, Ghetanaccio appunto, vissuto tra il 1782 ed il 1832). Proietti e Magni fanno dire a Rugantino: “Me n’hanno date, ma gliene ho dette tante!”.
C’è un’altra battuta emblematica: “Ma tu lo sai perché li signori fanno allatta’ li figli dalle balie? Perché così s’empareno da piccoli a succhia’ er sangue della povera gente!”. Ecco l’ironia di denuncia: Rugantino si prende le botte ma le cose le deve dire.
La stessa cosa c’è nella commedia di Garinei e Giovannini: Rugantino è un “cagasotto”, ma usa la lingua per ferire. Nonostante la sua codardia prende per i fondelli tutti; e non risparmia neanche i gendarmi. A questo proposito è interessante ricordare che la maschera di Rugantino all’inizio, oltre ad essere identificata con il capo dei briganti, era anche la caricatura del gendarme, prima di trasformarsi nel bullo che conosciamo. Se pensiamo alla prima edizione del 1962, quella con Nino Manfredi, Rugantino aveva infatti un cappello a due punte che venne eliminato dalla seconda edizione del 1978, con Enrico Montesano.
In Rugantino poi è anche molto forte la componente dell’amore e del suo significato. Si parla della difficoltà a stare da soli, quando mastro Titta canta “È bello avè ‘na donna dentro casa” e si arriva alla storia tra Rosetta e Rugantino; davanti all’amore ogni persona cambia. La donna, l’amore, diventano il movimento per la trasformazione. Rugantino diventa più coraggioso, più maturo, diventa un uomo.
Perché secondo te per diventare uomo, per ottenere il rispetto dei compagni e della donna che ama deve compiere, anzi, fingere di aver compiuto un’azione che comunque è negativa? Si tratta di un omicidio.
Perché si parla di un mondo in cui esisteva la legge del più forte, di un mondo in cui la violenza e la potenza erano sinonimi di grandezza. All’epoca la violenza, il delitto passionale, erano giustificati. La violenza e l’assassinio avevano un peso specifico diverso. Era uno stato violento, ma anche in questo c’è una denuncia. Non dimentichiamo che Roma faceva parte dello Stato Pontificio: era il Papa che ammetteva la pena di morte. Pensiamo a quale critica ci sia dietro tutto questo.
Ed è proprio per questo, come dicevo, che mi piace tanto “Rugantino”, per questo modo di far ridere italiano. Pensiamo, per esempio, ad una frase che ricorre in tutto lo spettacolo: “‘Na botta e via”…
Sì, c’è anche la canzone di Rosetta omonima: “‘Na botta e via”…
Esatto. Rugantino aveva scommesso con gli amici che sarebbe riuscito ad andare con lei entro la Sera dei Lanternoni. Ed il suo primo modo di corteggiare Rosetta è questo: “A Rose’, ‘na botta e via”. Questa frase ritorna anche dopo che l’ha conquistata e le ha promesso il silenzio, perché si è innamorato davvero; davanti gli amici che lo prendono in giro, infatti, prevale la sua “lingua”: “E invece ce dovete crede’ perché ce so stato co’ Rosetta… ‘na botta e via, e ce posso rianda’ quanno me pare”. Rosetta arriva, ovviamente ne è ferita. Dice: “Ah sì? Sono stata con te? ‘na botta e via, come con una di quelle? E allora posso anda’ co’ tutti, ‘na botta e via!” e parte la canzone. Ma il bello è che questa frase torna proprio nella chiusura dello spettacolo ed è l’emblema del nostro modo di essere così crudamente ironici. Rugantino è alla ghigliottina; sono finiti gli stornelli, le luci sono soffuse, c’è quella musica di sottofondo e mastro Titta si rivolge a lui commosso: “A Ruganti’… ‘na botta e via!”. Queste cose mi fanno impazzire. Mi fa impazzire come, col sorriso, l’italiano riesca a raccontare il dolore. Anche nella Tosca di Magni, per esempio, che io trovo pazzesca, alla fine dicono alla protagonista: “Abbada che caschi”. Lei risponde: “Non casco, me butto!”. Non lo dice con un carico di disgrazia, no: accetta il suo destino e lo fa con una leggerezza che secondo me abbiamo solo noi italiani. Tutto questo si ritrova, per esempio, anche in Sordi e nei grandi di quel periodo.
A proposito di questa ironia cruda: quando Rugantino è in carcere e riceve due volte la visita di Mastro Titta, che lo deve decapitare, si ironizza in modo molto forte sulla morte del protagonista. Ma un conto è far ridere su una morte temuta che poi non accade, un conto, come in questo caso, far ridere su una morte che si sa già che avverrà davvero. Secondo te, è difficile far accettare al pubblico questo tipo di ironia?
Secondo me no. Il teatro parla di vita vera e la morte fa parte della vita di ognuno: è un fatto. È il carico che tu dai ad ogni cosa che ne cambia la prospettiva. Non puoi prescindere dalla morte, dipende da come affronti le situazioni. Le puoi affrontare con una cosciente leggerezza che non vuol dire superficialità, ma significa affrontare le cose in altra maniera.
Pensavo ad una sensibilità che può portare qualcuno a non riuscire a ridere…
Ovviamente il pubblico legge e recepisce questo tipo di ironia come preferisce. Ma il bello secondo me è proprio questo: tu ridi di una cosa tragica. Pensiamo alle battute di Mastro Titta e di Rugantino: “Eh già, tu ormai te sei messo l’anima in pace, hai risolto il problema, ma quello che te deve ammazza’ so’ io, non ce pensi a questo?”. Rugantino gli risponde: “E ma voi n’avete tagliate tante de capocce”; e mastro Titta: “Ma che vuol di’? Era tutta gente che non m’aveva fatto niente, tu me n’hai fatte tante!”. È tutto il contrario di tutto, ed è il nostro modo di sorridere. Sì è vero, si parla della morte e si ride, ma è questa la bellezza dello spettacolo: è una commedia, tu ridi, ma sotto hai un altro piano di lettura.
Tra l’altro Mastro Titta è realmente esistito: Giovanni Battista Bugatti, “Er boja de Roma”. Ovviamente qui la sua figura ha una connotazione molto più bonaria.
La morte, tra l’altro, è presente in tutto lo spettacolo, fin dall’inizio, quando Rugantino ed Eusebia sono al capezzale dell’anziano conte Bellarmino che stanno raggirando per ottenerne l’eredità…
Sì: è presente fin dall’inizio. Pensiamo proprio all’opening. Si apre con un accenno di “Tirollallero”, prima della Morra. In “Tirollallero”, un po’ più avanti, ci sarà questa frase: “Così è ‘na donna quanno c’ha du’ amanti, che tutt’e due nun li po’ fa contenti, mejo che all’uno o all’antro dia licenza. A bella, si tocca a me ce vo’ pazienza”. È una canzone malinconica, triste: tu capisci già che c’è qualcosa che non funzionerà. È un po’ come il presentimento di Romeo in “Romeo e Giulietta”, dopo il sogno. Poi parte subito “La Morra” e la morra è un gioco antichissimo, storico, che non si praticava solo in Italia: era considerato un gioco d’azzardo ed era proibito. Con la morra la gente si sfidava, come in un duello. Quindi lo spettacolo parte già con una sfida. Nell’edizione con Montesano, uscita in dvd nella collana di Garinei e Giovannini, c’è Sergio Japino che tira fuori il coltello. Veniamo quindi subito trasportati in un periodo storico molto violento, in cui la violenza era giustificata ed era all’ordine del giorno, così come le esecuzioni. La vita aveva un significato relativo. In un paese dove c’è la pena di morte o comunque ci si ammazza per un niente, ovviamente il peso della morte e della vita sono completamente diversi rispetto a quello che hanno nella nostra società. Quest’opening viene rotto dall’ingresso di Rugantino che sta scappando, inseguito da un’altra persona; girano intorno ad un tavolo e Rugantino dice all’altro: “Se t’acchiappo!”. Questa battuta è già delucidante rispetto al suo carattere. Quindi si parte con un quadro molto reale, che mostra uno spaccato di vita ottocentesca, interrotto dall’intervento molto ironico di Rugantino: in tutto questo noi abbiamo già l’idea che la morte avrà un peso importante e infatti, come dicevamo, è presente in tutta l’opera e rispecchia anche un certo tipo di filmografia di quegli anni, dove la tragedia era ricoperta dall’ilarità e dall’ironia: due elementi che viaggiavano paralleli.
Infatti qui la morte è quasi sempre presa in giro, a cominciare da quando Rugantino e Rosetta sono al capezzale del conte all’inizio dello spettacolo, per arrivare alla veglia funebre con i Principi Paritelli…
Sì, nella prima scena, appunto, vediamo l’anziano conte che sta morendo e Rugantino ed Eusebia che pensano solo all’eredità. Poi ci sono i Paritelli e donna Marta che stanno facendo una veglia funebre, ma in realtà pensano solo a come andare a divertirsi e a che scherzi fare. E qui tocchiamo un altro punto critico: l’aristocrazia. Una cosa che ricorda Magni è che in quell’epoca (parliamo del 1830), Roma non era ancora capitale d’Italia. Non c’era stata nemmeno l’unità, e la popolazione non era grandissima, c’erano circa 150 mila abitanti. La città si popolò quando diventò capitale e quindi Magni spiega come all’epoca, a Roma, ci fossero solo monache e preti – e quindi la Chiesa – aristocratici e popolo. Non c’era la borghesia. La borghesia a Roma entrò solo quando questa divenne capitale. Quindi il popolo ovviamente prendeva per i fondelli la Chiesa e l’aristocrazia, una classe sociale inutile. Il Principe Paritelli e la moglie donna Marta rappresentano proprio quel tipo di nobiltà. Ecco che torna ancora la denuncia. C’è il popolo che deve combattere e convivere con un’aristocrazia che pensa solo a mangiare, a bere, a divertirsi e non si assume le responsabilità. E viene evidenziata la superficialità che questi nobili hanno in tutte le situazioni. Nella scena in cui Rugantino viene obbligato a mangiare il gatto morto a casa dei Paritelli, ci sono dei momenti in cui si parla della società… Anche in questo frangente viene posta l’attenzione, grazie ad alcune battute, su un’aristocrazia che se ne lava completamente le mani. Con il sorriso gli autori ti fanno capire quale fosse la realtà e quale fosse il pensiero del popolo.
Ma c’è una componente di colpa anche nel popolo; Rugantino canta: “nun c’ho niente da fa’”. Sono la pigrizia e l’indolenza non solo del romano, ma dell’Italiano.
C’è anche una componente di noia. Anche i nobili fanno quegli scherzi per noia..
Esatto. Qui si sottolinea proprio questa pigrizia del popolo di non ribellarsi e la pigrizia del nobile di non preoccuparsi di gestire un Paese, o comunque di dare un esempio al Paese. Prima dell’esecuzione Rugantino dice a Mastro Titta: “Morto Rugantino se ne fa un altro. Dieci, cento mille, perché noi romani semo tutti Rugantini, tutti co’ la voglia de sembra’ duri, screpanti, gente che ce sanno fa”.
Quindi è uno spettacolo che ha davvero tantissime sfumature. Dalle frasi delle canzoni, alle battute che si scambiano i personaggi. E poi c’è la forza della semplicità, sia di scrittura, sia di interpretazione. Se tu guardi Fabrizi, non è che fa tanto. Vengono dette delle cose con una naturalezza che non può non farti ridere. Questa è anche la bravura dei grandi: non devi fare tanto per fare ridere o raggiungere un certo tipo di comunicazione. E poi è talmente forte il messaggio lanciato, che diventa disarmante.
Anche perché appunto è attuale, la storia è ambientata nel 1800 ma la puoi riferire ai giorni nostri.
Esatto, perché noi ciclicamente ritorniamo alle stesse cose. Per questo la storia è importante. Puoi raccontare il presente anche con dei fatti storici: è questa la satira. Se guardi “Scipione detto anche l’Africano” con Mastroianni e Gassman ti accorgi che si tratta di una denuncia nei riguardi della politica contemporanea.
E per questo ho scelto Rugantino, perché anche con il linguaggio del musical o della commedia musicale si possono raccontare alcune cose; il musical non deve essere per forza lustrini e paillettes o un family show, ci deve essere spazio per tutti, dalla Disney a “Tutti insieme appassionatamente”, fino allo spettacolo storico come “Evita”, “Jesus Christ Superstar” o come “Salvatore Giuliano”, che è storia nostra. Posso usare la prosa, posso usare il balletto, posso usare il linguaggio del musical o della commedia musicale – che hanno due strutture diverse – e affrontare qualsiasi argomento. E questa è la libertà dell’espressione teatrale, non si deve scegliere per forza una sola strada: ne abbiamo mille. E gli italiani possono farlo. Non possiamo riprodurre il musical americano per una questione di costi e ci rimane difficile il tipo di scrittura drammaturgica musicale che hanno loro, non tutti la sanno fare e in questo Dino Scuderi, secondo me, è molto bravo. Ma si possono trattare diversi temi, da quelli leggeri a quelli drammatici in maniere diverse, con tanti linguaggi, da quello più serioso a quello scanzonato come nel caso di “Rugantino”.
In cosa consiste esattamente la distinzione che fai tra la scrittura drammaturgica musicale propria del musical e quella appartenente alla commedia musicale italiana?
Non è un dato assoluto, ma per me nel musical anglosassone la musica occupa almeno l’80% dello spettacolo, come se fosse un’opera lirica e la storia è raccontata con la musica. Quello che molto spesso accade in Italia è che ci troviamo davanti a canzoni singole, staccate, senza un percorso drammaturgico della musica: sono pezzi un po’ a sé stanti. Poi la commedia musicale ha altre radici. Garinei e Giovannini facevano commedia musicale. Come dicevo all’inizio venivano dal varietà, dalla rivista musicale e così anche moltissimi attori che lavoravano con loro. La prima commedia musicale moderna di Garinei e Giovannini è “Attanasio cavallo vanesio”, del 1952, con le musiche di Gorni Kramer. Solo nel 1960 Garinei e Giovannini assunsero la direzione artistica del Sistina, che era nato come un cinema teatro; il 1961 è l’anno di “Rinaldo in campo”, che registrò un record di incassi, scritto in occasione del centenario dell’unità d’Italia. Modugno, interprete principale e autore delle musiche, era famoso in America. Come coreografo venne chiamato dunque Herbert Ross che aveva fatto molti musical a Broadway e avrebbe lavorato in seguito anche con Fred Astaire. Per l’allestimento mandarono Giulio Coltellacci in America per studiare il modo di lavorare degli americani. Tornato in Italia, Coltellacci escogitò il famoso doppio girevole, automatizzato e studiato appositamente per il Sistina, che dava e dà la possibilità di numerosissimi cambi scena: un impianto rivoluzionario per l’epoca.
Parliamo delle musiche di Trovajoli.
Nella scrittura musicale Rugantino si avvicina molto al musical, proprio per il modo di scrittura di Trovajoli: ci sono alcuni temi che ritornano e che sono propri dei vari personaggi. All’inizio c’è la presentazione di ognuno. Quanto entra Rosetta, ad esempio, l’atmosfera cambia. Trovajoli era molto attento, scriveva come scrivono gli anglosassoni, sapeva fare le musiche per il teatro. Musicalmente Trovajoli dà i diversi passaggi dei personaggi, s’interrompe quando si devono raccontare determinate cose, poi riprende la canzone. Insomma le canzoni non sono fini a se stesse.
C’è una bellissima intervista a Trovajoli dove lui racconta che doveva scrivere musica romana, ma di musica romana non esisteva niente, a parte gli stornelli. Così inventò questo “melos romanesco”, dandogli una poesia e una intensità bellissime. Trovajoli ha fatto storia, ha aperto una pista. Del resto era un compositore grandissimo, veniva dal jazz. Garinei e Giovannini lo chiamavano “Il cigno di Roma”; l’altro cigno, quello di Busseto, era Giuseppe Verdi.
Trovajoli ha coniugato il melos italiano, il sentimento, la profondità, con la maniera semplice e scanzonata romanesca che in Rugantino si riscontra in brani come “La berlina”, “Tira a campa’”, “Carnevale” ed il “Saltarello”, che era il ballo tipico dell’epoca. Sono tutti pezzi che ti danno subito una connotazione storica e sono più “leggeri”, poi trovi la profondità e il pathos di “Ciumachella de Trastevere”, “Tirollallero”, “È l’omo mio”, “Roma nun fa’ la stupida stasera”, tutte canzoni di una poesia enorme. “Roma nun fa’ la stupida stasera” è diventata una hit mondiale e Trovajoli non era nemmeno convinto di quello che aveva scritto. Tra l’altro Garinei e Giovannini gli presentavano già i testi e lui doveva musicarli. Era un binario molto preciso quello su cui viaggiavano Garinei e Giovannini. Ed i testi raccontano come sono i personaggi, portano avanti la storia, spiegano la società dell’epoca: è tutto soppesato. Spesso si sottovalutano i numeri corali, si guardano superficialmente. Qui se tu ascolti il testo di questi quadri, capisci esattamente com’era la società, cosa pensava e cosa sta per succedere nella storia. Trovajoli, come Morricone e Ortolani – e con gli ultimi due ho avuto la fortuna di lavorare – hanno una ricchezza nella scrittura… Noi abbiamo i migliori compositori al mondo.
In un paio di occasioni, in Rugantino, il momento di insieme è anche usato, in parte, con la funzione del coro greco: commenta i fatti o i personaggi.
Esatto: spiega! Ne “La Berlina” per esempio. E c’è anche la presentazione di Rugantino, di Scariotto. Quando arriva Rosetta si interrompe la canzone e c’è la sua presentazione. Poi riprende la canzone e c’è la parte della scommessa. Le parole sono ponderate ed il modo di scrivere è asciutto. Ogni frase ha un significato. Ci si deve fare attenzione perché si è portati a notare queste cose soprattutto nelle parti recitate. Qui invece i quadri corali sono veri e propri momenti narrativi. È come quando ci si trova davanti ad un grande romanzo classico: quando è scritto bene, ogni frase assume un peso, altrimenti diventano tutti concetti astratti e le parole sono buttate via.
Gli interpreti.
La fortuna di Rugantino è stata anche quella di avere interpreti eccezionali che negli anni si sono susseguiti. Manfredi, Montesano, Fabrizi, Bice Valori, Lea Massari, Alida Chelli. Ho visto tutte le edizioni: quelle con la Ferilli, Mastandrea, La Ginestra, la Marchini, l’ultima di Brignano con Serena Rossi e Paola Tiziana Cruciani.
Prendiamo un Aldo Fabrizi, per esempio. Se tu ascolti Fabrizi cantare “È bello ave’ ‘na donna dentro casa” ne ammiri la naturalezza. Tu pensi: “Cosa fa in fondo?” E invece ti ha raccontato tutto. Basta uno sguardo, un modo di mettere la testa, un sospiro e tutto diventa una poesia. E vale anche per gli altri. Quando un attore è grande, è questo che fa. Il momento musicale del resto che cos’è? È un monologo in musica. Si pensa che si debba essere grandi cantanti e basta: e invece no. Certo, devi aver studiato, è ovvio che si debba avere una tecnica vocale, ma devi essere anche un attore! E loro erano attori, recitavano anche quando cantavano, davano un senso a tutte le parole. Abbiamo avuto davvero degli interpreti grandissimi.
In realtà pare che Trovajoli soffrisse sempre il fatto di lavorare con artisti che erano principalmente attori. Racconta Montesano che durante la registrazione di “Roma nun fa’ la stupida stasera” Trovajoli disse: “Aò, me metti un po’ de trombe?” per non sentire troppo la sua voce.
Parliamo delle coreografie di Gino Landi.
Le coreografie originali erano di Dania Krupska. Landi subentrò nell’edizione con Montesano e da lì le ha firmate tutte, modificandole: non le ha lasciate mai uguali negli anni, le ha sempre un po’ rivisitate.
Gino è favoloso. Oltre ad esse un coreografo è anche un regista teatrale, televisivo… È nato in una famiglia di attori. Pur avendo fatto tanto altro, il mondo del Sistina lo accompagna ancora oggi. È un pezzo di storia della nostra tradizione musicale italiana.
Guardando le coreografie di “Rugantino”, si nota la sua grandissima abilità nel mettere insieme tanti elementi: i ballerini e gli attori, per esempio. Organizza la scena in una maniera che è tecnica, ma realistica al momento stesso: unisce i movimenti scenici ai passi tecnici di danza. Alle audizioni fa sempre portare la parte classica perché vuole ballerini con una preparazione fortissima. Poi, però, li armonizza nella scena. Nella “Morra” o nel Saltarello, per esempio, ci sono i rispettivi movimenti della morra e del saltarello, ma in mezzo ci sono delle cose tecniche difficilissime. Ed è fuso tutto talmente bene, che non te ne accorgi perché, essendo anche un regista, Landi ha una visione registica della scena; ne muove l’insieme affinché tutto sia omogeneo: c’è il recitato, ci sono il passo di danza, la coreografia, il movimento d’insieme. Quindi diventa una scena veramente completa. Spesso invece, in molti spettacoli tu pensi: “Ah, è il momento del balletto”. Le sue coreografie, invece, sono movimenti continui. Chi fa una cosa, chi ne fa un’altra; uno recita, uno balla. Lo spettatore legge un movimento armonico, teatrale, che ha perfettamente connessione con il significato della scena e della canzone, senza avvertire stacchi. La bellezza di lavorare con Gino, poi, è quella di venire a contatto, non solo con la sua esperienza, ma anche con il suo talento. Un’altra cosa bella di Landi è che ha un entusiasmo pazzesco: ha sempre voglia di fare, è propositivo, è un grande maestro. Ed ha una grande esperienza anche nell’operetta, ne ha fatte una marea. Per non parlare delle regie televisive. La regia della ripresa tv pubblicata nel dvd con Montesano è sua. Tra l’altro le riprese vennero fatte in una settimana. Ripresero i cambi scena senza il pubblico e poi fecero delle riprese durante lo spettacolo.
Le luci e le atmosfere.
Nell’ultima edizione diretta da Brignano hanno creato tante atmosfere nuove. Per esempio c’è un uso del ghiaccio secco che rimane basso, come nella scena iniziale e nella scena della decapitazione finale, per dare proprio questa idea nebulosa, di suspense: l’effetto è molto bello. Ci sono poi dei giochi luce (disegno luci di Giancarlo Bottone, realizzazione Valerio Tiberi) da vedere. Perché a parte i girevoli, ci sono i fondali e con la tecnologia moderna sono stati ottenuti degli effetti particolari: le luci costruiscono un piano di lettura bellissimo, usando tutti colori, i controluce. Anche solo il disegno luci è una poesia.
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